SI' AL TERZO POLO, MA CON VISTA SUL NUOVO PARTITO DEI RIFORMISTI ITALIANI
Dopo 6 anni di “riposo” dalla politica attiva e
4 dalla sofferta uscita dal PD ho ritrovato qualche valida ragione per
rimettere in gioco alcune idee che spero siano utili in questo delicato
passaggio delle elezioni del 25 settembre.
Mi ha convinto
il fatto, di cui poco si è parlato, che Carlo Calenda e Matteo Renzi, durante
l’iniziativa di lancio della campagna elettorale a Milano, abbiano prefigurato,
per il post elezioni, il superamento degli attuali partiti che si dicono
riformisti, da Azione a Italia Viva, per promuovere finalmente la costruzione
di una grande alleanza di cittadini che non hanno paura delle riforme e una
nuova forza politica che li rappresenti. Per questo mi batterò in prima
persona.
Un progetto che riguarda l’Italia, ma anche ognuna
delle nostre città, perché c’è da riformare anche il welfare locale, ci sono da
trovare nuovi strumenti per promuovere sviluppo e lavoro, per far collaborare
scuole e imprese e la politica deve farsi promotrice di questi nuovi processi e
cambiare il modo di relazionarsi con il territorio.
L’obiettivo, non bisogna vergognarsi di dirlo,
al netto degli errori fatti, è ritornare allo spirito del referendum del 4
dicembre 2016, la più grande prova di partecipazione e democrazia degli
ultimi decenni, nella quale 13 milioni di cittadini avevano accettato, pur
perdendo il referendum, la sfida riformista e per la prima volta nella
storia repubblicana avevano votato SÌ per un concreto progetto di straordinario
e profondo cambiamento (non promesse), una sfida ovviamente avversata da tutti
i leader conservatori di destra e di sinistra di allora, dalla Meloni, a
Salvini e Berlusconi, passando da Beppe Grillo e fino a Bersani, D’Alema e agli
altri (tanti) leader della sinistra.
Quelli del referendum sono quelli che vogliono
ancora come allora riformare il bicameralismo perfetto, la suddivisione delle
competenze tra Stato ed Enti Locali, l’elezione diretta del Premier, non del
Presidente della Repubblica e una legge elettorale più possibile maggioritaria,
in modo tale che chi vince le elezioni possa governare 5 anni e i cittadini, al
termine della legislatura, giudichino se il Governo ha lavorato bene o male. Quelli
del referendum sono quelli che vogliono ancora come allora riformare le
Regioni, rendere più dinamico il mercato del lavoro, rilanciare davvero l’autonomia
scolastica, cambiare radicalmente la PA a colpi di digitalizzazione e
semplificazione senza il timore di svuotare le sacche di potere e i privilegi
che si sono formati lì dentro. Tutte riforme che erano state già avviate, non
erano perfette, ma che sono state in questi anni purtroppo snaturate in nome di
tutte le ideologie. E poi incentivi selettivi e a favore delle PMI innovative,
promozione degli investimenti pubblici, premiare la fedeltà fiscale, un fisco
non solo più leggero e semplice, ma soprattutto più stabile e certo. Altro che
condoni e patrimoniali.
Mi pare che si possa dire che i riformisti sono anche
gli unici che, senza ipocrisia, hanno proposte chiare e concrete per
raggiungere il più in fretta possibile l’autonomia nell’approvvigionamento
energetico e gli unici che possono sostenere l’opzione a favore dell’unione
politica dell’Europa, senza incertezze, senza dubbi.
Ora però occorre
lavorare affinchè il Terzo Polo non diventi il Centro “scaltro” di
una vecchia geografia della politica, ma diventi il nuovo partito dei
riformisti italiani, libero dai personalismi e con una sua chiara visione del
paese.
Quella
geografia è, di fatto, cambiata perché siamo, in realtà, in un sostanziale
bipolarismo: esistono
i riformisti ed esiste il polo dei conservatori di destra e di sinistra
ognuno con i loro temi, che sono sempre gli stessi, le loro ricette, che sono
sempre le stesse e che hanno sempre finito per lasciare tutto com’è.
A destra i conservatori sono quelli che guardano
solo al problema e pensano di risolverlo da un giorno all’altro (la chiusura
dei porti che elimina l’immigrazione clandestina) o dicendo che non esiste (la
crisi del 2008 con “i ristoranti pieni”
di Berlusconi oppure la pandemia “che è
solo un’influenza”) oppure che è colpa di altri (l’Europa, gli immigrati, i
mercati finanziari) o facendo proposte irrealizzabili (la flat tax al 15%). A
sinistra i conservatori sono quelli della retorica inconcludente dei valori che
i problemi li ama rappresentare tutti, ma senza risolverne uno, perché c’è
sempre qualcuno che dice NO. Per tutti, “spremuto” il problema ai fini del
consenso, tutto può rimanere com’è.
I riformisti sono quelli che, invece,
guardano anche alle cause del problema e spesso
propongono, di cambiare solo il modo nel quale quel problema è stato affrontato
fino a quel momento, il sistema e le leggi, spesso ridondanti e farraginosi,
che hanno governato quel problema, con l’obiettivo di creare le condizioni per
far funzionare le cose, magari spendendo meglio le risorse che già ci sono.
Certo, questo può significare dire dei sì e dei no e scontentare qualcuno di
quelli ai quali la politica ha garantito privilegi e benefici ingiustificati.
Dopo il Governo Renzi e il referendum, abbiamo
avuto Governi di tutti i colori che, al netto della pandemia, hanno speso
tantissimo, ma hanno lasciato il paese immobile: sugli eccessi della
burocrazia, sulla scarsa produttività, sulla rigidità del mondo del lavoro, sul
mismatch tra domanda e offerta di lavoro, sull’evasione fiscale, sulla povertà
e sui flussi immigratori, sulla lentezza e la farraginosità delle leggi, sulla
disomogeneità dei Governi e l’inefficacia della loro azione, quindi
sull’instabilità politica, sul tergiversare in Europa, sull’energia. E appena Mario
Draghi ha rilanciato la prospettiva delle riforme, sia a destra che a sinistra
si sono ribellati, proprio perché i sì e i no danno fastidio.
Del resto, tutta la classe politica del
nostro paese è nata nel Novecento, nella Prima Repubblica, con l’imprinting
proporzionale: prima vengono i partiti, poi le
coalizioni che servono solo per prendere più voti possibili alle elezioni per poi
alimentare e magari ingrandire gli orticelli di ciascun partito. È per questo che
le attuali coalizioni non hanno identità, sono divise anche sui temi strategici
(pensiamo a Europa ed energia) e fanno fatica a governare, perché ogni partito
deve custodire prima il suo orticello.
E poi la politica di destra e di
sinistra parla solo dei problemi degli adulti, perché gli adulti sono gli unici
che votano e che hanno interessi consolidati da difendere. Destra e sinistra se
li contendono con gli stereotipi e i luoghi comuni di sempre. Non per niente in questi anni si sono avuti
degli spostamenti significativi, da sinistra a destra e viceversa, di quell’elettorato
che è perennemente in cerca di conferma e tutela dei propri “diritti”
acquisiti, anche di garanzie e di privilegi ingiustificati, come già dicevo, e
che si offre al miglior offerente. Così, soprattutto nelle congiunture più
ostiche (crisi finanziarie, pandemia, guerra) aumentano quelli che sono sotto
la soglia della povertà, anche perché, a forza di promesse inutili, non viene
fatto nulla per governare con le riforme il divario tra chi sta bene e chi no e
dare a questi ultimi, comunque, più opportunità per affrancarsi anche in
momenti difficili: non il reddito di cittadinanza, bensì formazione di
qualità, meno burocrazia, giustizia più veloce, imprese più dinamiche, più
lavoro. Il progressivo aumento di questo divario è segno palese di una
politica che sa solo conservare e che opera, spesso senza rendersene conto,
solo per quelli che già “arrivano a fine mese”. L’inerzia della conservazione.
Analizzando i flussi elettorali si vede che chi
non ha mai cambiato idea sono solo i giovani, nel senso che hanno continuato a
non andare a votare. Se i giovani non si interessano della politica non è
perché non hanno passione, ma è perché la politica in realtà non si interessa
di loro, li vuole tenere fuori parlando solo di problemi che non sono i loro. Li
costringiamo a dipendere da noi adulti, dai nostri problemi e dalle nostre
paure. È drammatico.
Le riforme, invece, sono per i giovani,
anche se non votano, anzi, proprio perché non votano. Istituzioni efficienti, mercato del lavoro più
dinamico, PA semplice, scuola innovativa, sono tutte condizioni indispensabili
affinché i giovani siano sollecitati a mettere a frutto i loro molteplici
talenti. Perché i giovani sono, per fortuna, molto meglio di noi adulti e
dobbiamo dargli fiducia, condividere e valorizzare la visione che loro hanno
del mondo, non provare ad inculcargli la nostra. Sono gli unici che possono fare un mondo
migliore di quello che c’è.
Un mondo che per i giovani non ha confini, un
mondo nel quale i giovani, che sono più curiosi, coraggiosi e dinamici degli
adulti, cercano opportunità e non hanno privilegi da difendere come noi adulti
e dove la guerra, tutte le guerre sono un danno prima di tutto per loro, va
contro la loro voglia di scoprire, conoscere, condividere, cooperare,
collaborare, mentre gli adulti si dividono loro hanno trovato linguaggi comuni,
anche grazie all’arte, alla cultura, all’ambiente, alla tecnologia, allo sport,
e non capiscono come si possa arrivare a rendere così brutale la convivenza tra
gli uomini in una civiltà dove, oggi più che mai, ci sono tante opportunità per
tutti. Per i giovani, poi, l’Europa unita è già una realtà, è già la loro casa,
sono insomma gli unici che non hanno il problema di stare dentro o fuori,
perché hanno già deciso di stare dentro.
Il percorso per il partito delle riforme sarà
lungo perché occorre convincere con i fatti la nuova classe dirigente del nostro
paese che ancora non si sente rappresentata da nessuno (non scordiamoci la
grave crisi di tutto il mondo della rappresentanza), il ceto medio
responsabile che decide di staccarsi dal computer, uscire allo scoperto e fare
la sua parte (non il ceto “media” o il ceto “dal dito medio” che spopola sui
social), ricostruire la fiducia nella politica dei giovani e di quei tanti
cattolici che finalmente si stanno stancando di tutti i mercanti che “nel
tempio”, a destra e sinistra, ognuno a suo modo e in nome di qualche misterioso
principio etico, sono convinti che ci siano vite che valgono più di altre. E
bisognerà che tanti cittadini si rendano anche conto che occorre un più di
loro responsabilità e che alla politica non si può chiedere tutto, perché
il rischio è che si illuda di essere tutto, mentre la politica seria è quella
consapevole del suo limite.
Percorso, quindi, lungo e difficile quello del
nuovo partito dei riformisti. Non sappiamo se sia quello giusto, ma giusto è
l’obiettivo che nessuno ha il coraggio di perseguire: uscire dal tempo delle
ideologie che sono la maschera più subdola della conservazione e che stanno
spegnendo la creatività del nostro Bel Paese.
Questo deve essere il senso del voto al Terzo
Polo.