venerdì 9 settembre 2022

SI' AL TERZO POLO, MA CON VISTA SUL NUOVO PARTITO DEI RIFORMISTI ITALIANI

 SI' AL TERZO POLO, MA CON VISTA SUL NUOVO PARTITO DEI RIFORMISTI ITALIANI

Dopo 6 anni di “riposo” dalla politica attiva e 4 dalla sofferta uscita dal PD ho ritrovato qualche valida ragione per rimettere in gioco alcune idee che spero siano utili in questo delicato passaggio delle elezioni del 25 settembre.

Mi ha convinto il fatto, di cui poco si è parlato, che Carlo Calenda e Matteo Renzi, durante l’iniziativa di lancio della campagna elettorale a Milano, abbiano prefigurato, per il post elezioni, il superamento degli attuali partiti che si dicono riformisti, da Azione a Italia Viva, per promuovere finalmente la costruzione di una grande alleanza di cittadini che non hanno paura delle riforme e una nuova forza politica che li rappresenti. Per questo mi batterò in prima persona.

Un progetto che riguarda l’Italia, ma anche ognuna delle nostre città, perché c’è da riformare anche il welfare locale, ci sono da trovare nuovi strumenti per promuovere sviluppo e lavoro, per far collaborare scuole e imprese e la politica deve farsi promotrice di questi nuovi processi e cambiare il modo di relazionarsi con il territorio.

L’obiettivo, non bisogna vergognarsi di dirlo, al netto degli errori fatti, è ritornare allo spirito del referendum del 4 dicembre 2016, la più grande prova di partecipazione e democrazia degli ultimi decenni, nella quale 13 milioni di cittadini avevano accettato, pur perdendo il referendum, la sfida riformista e per la prima volta nella storia repubblicana avevano votato SÌ per un concreto progetto di straordinario e profondo cambiamento (non promesse), una sfida ovviamente avversata da tutti i leader conservatori di destra e di sinistra di allora, dalla Meloni, a Salvini e Berlusconi, passando da Beppe Grillo e fino a Bersani, D’Alema e agli altri (tanti) leader della sinistra.

Quelli del referendum sono quelli che vogliono ancora come allora riformare il bicameralismo perfetto, la suddivisione delle competenze tra Stato ed Enti Locali, l’elezione diretta del Premier, non del Presidente della Repubblica e una legge elettorale più possibile maggioritaria, in modo tale che chi vince le elezioni possa governare 5 anni e i cittadini, al termine della legislatura, giudichino se il Governo ha lavorato bene o male. Quelli del referendum sono quelli che vogliono ancora come allora riformare le Regioni, rendere più dinamico il mercato del lavoro, rilanciare davvero l’autonomia scolastica, cambiare radicalmente la PA a colpi di digitalizzazione e semplificazione senza il timore di svuotare le sacche di potere e i privilegi che si sono formati lì dentro. Tutte riforme che erano state già avviate, non erano perfette, ma che sono state in questi anni purtroppo snaturate in nome di tutte le ideologie. E poi incentivi selettivi e a favore delle PMI innovative, promozione degli investimenti pubblici, premiare la fedeltà fiscale, un fisco non solo più leggero e semplice, ma soprattutto più stabile e certo. Altro che condoni e patrimoniali.

Mi pare che si possa dire che i riformisti sono anche gli unici che, senza ipocrisia, hanno proposte chiare e concrete per raggiungere il più in fretta possibile l’autonomia nell’approvvigionamento energetico e gli unici che possono sostenere l’opzione a favore dell’unione politica dell’Europa, senza incertezze, senza dubbi.

Ora però occorre lavorare affinchè il Terzo Polo non diventi il Centro “scaltro” di una vecchia geografia della politica, ma diventi il nuovo partito dei riformisti italiani, libero dai personalismi e con una sua chiara visione del paese.

Quella geografia è, di fatto, cambiata perché siamo, in realtà, in un sostanziale bipolarismo: esistono i riformisti ed esiste il polo dei conservatori di destra e di sinistra ognuno con i loro temi, che sono sempre gli stessi, le loro ricette, che sono sempre le stesse e che hanno sempre finito per lasciare tutto com’è.

A destra i conservatori sono quelli che guardano solo al problema e pensano di risolverlo da un giorno all’altro (la chiusura dei porti che elimina l’immigrazione clandestina) o dicendo che non esiste (la crisi del 2008 con “i ristoranti pieni” di Berlusconi oppure la pandemia “che è solo un’influenza”) oppure che è colpa di altri (l’Europa, gli immigrati, i mercati finanziari) o facendo proposte irrealizzabili (la flat tax al 15%). A sinistra i conservatori sono quelli della retorica inconcludente dei valori che i problemi li ama rappresentare tutti, ma senza risolverne uno, perché c’è sempre qualcuno che dice NO. Per tutti, “spremuto” il problema ai fini del consenso, tutto può rimanere com’è.

I riformisti sono quelli che, invece, guardano anche alle cause del problema e spesso propongono, di cambiare solo il modo nel quale quel problema è stato affrontato fino a quel momento, il sistema e le leggi, spesso ridondanti e farraginosi, che hanno governato quel problema, con l’obiettivo di creare le condizioni per far funzionare le cose, magari spendendo meglio le risorse che già ci sono. Certo, questo può significare dire dei sì e dei no e scontentare qualcuno di quelli ai quali la politica ha garantito privilegi e benefici ingiustificati.

Dopo il Governo Renzi e il referendum, abbiamo avuto Governi di tutti i colori che, al netto della pandemia, hanno speso tantissimo, ma hanno lasciato il paese immobile: sugli eccessi della burocrazia, sulla scarsa produttività, sulla rigidità del mondo del lavoro, sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro, sull’evasione fiscale, sulla povertà e sui flussi immigratori, sulla lentezza e la farraginosità delle leggi, sulla disomogeneità dei Governi e l’inefficacia della loro azione, quindi sull’instabilità politica, sul tergiversare in Europa, sull’energia. E appena Mario Draghi ha rilanciato la prospettiva delle riforme, sia a destra che a sinistra si sono ribellati, proprio perché i sì e i no danno fastidio.

Del resto, tutta la classe politica del nostro paese è nata nel Novecento, nella Prima Repubblica, con l’imprinting proporzionale: prima vengono i partiti, poi le coalizioni che servono solo per prendere più voti possibili alle elezioni per poi alimentare e magari ingrandire gli orticelli di ciascun partito. È per questo che le attuali coalizioni non hanno identità, sono divise anche sui temi strategici (pensiamo a Europa ed energia) e fanno fatica a governare, perché ogni partito deve custodire prima il suo orticello.

E poi la politica di destra e di sinistra parla solo dei problemi degli adulti, perché gli adulti sono gli unici che votano e che hanno interessi consolidati da difendere. Destra e sinistra se li contendono con gli stereotipi e i luoghi comuni di sempre. Non per niente in questi anni si sono avuti degli spostamenti significativi, da sinistra a destra e viceversa, di quell’elettorato che è perennemente in cerca di conferma e tutela dei propri “diritti” acquisiti, anche di garanzie e di privilegi ingiustificati, come già dicevo, e che si offre al miglior offerente. Così, soprattutto nelle congiunture più ostiche (crisi finanziarie, pandemia, guerra) aumentano quelli che sono sotto la soglia della povertà, anche perché, a forza di promesse inutili, non viene fatto nulla per governare con le riforme il divario tra chi sta bene e chi no e dare a questi ultimi, comunque, più opportunità per affrancarsi anche in momenti difficili: non il reddito di cittadinanza, bensì formazione di qualità, meno burocrazia, giustizia più veloce, imprese più dinamiche, più lavoro. Il progressivo aumento di questo divario è segno palese di una politica che sa solo conservare e che opera, spesso senza rendersene conto, solo per quelli che già “arrivano a fine mese”. L’inerzia della conservazione.

Analizzando i flussi elettorali si vede che chi non ha mai cambiato idea sono solo i giovani, nel senso che hanno continuato a non andare a votare. Se i giovani non si interessano della politica non è perché non hanno passione, ma è perché la politica in realtà non si interessa di loro, li vuole tenere fuori parlando solo di problemi che non sono i loro. Li costringiamo a dipendere da noi adulti, dai nostri problemi e dalle nostre paure. È drammatico.

Le riforme, invece, sono per i giovani, anche se non votano, anzi, proprio perché non votano. Istituzioni efficienti, mercato del lavoro più dinamico, PA semplice, scuola innovativa, sono tutte condizioni indispensabili affinché i giovani siano sollecitati a mettere a frutto i loro molteplici talenti. Perché i giovani sono, per fortuna, molto meglio di noi adulti e dobbiamo dargli fiducia, condividere e valorizzare la visione che loro hanno del mondo, non provare ad inculcargli la nostra.  Sono gli unici che possono fare un mondo migliore di quello che c’è.

Un mondo che per i giovani non ha confini, un mondo nel quale i giovani, che sono più curiosi, coraggiosi e dinamici degli adulti, cercano opportunità e non hanno privilegi da difendere come noi adulti e dove la guerra, tutte le guerre sono un danno prima di tutto per loro, va contro la loro voglia di scoprire, conoscere, condividere, cooperare, collaborare, mentre gli adulti si dividono loro hanno trovato linguaggi comuni, anche grazie all’arte, alla cultura, all’ambiente, alla tecnologia, allo sport, e non capiscono come si possa arrivare a rendere così brutale la convivenza tra gli uomini in una civiltà dove, oggi più che mai, ci sono tante opportunità per tutti. Per i giovani, poi, l’Europa unita è già una realtà, è già la loro casa, sono insomma gli unici che non hanno il problema di stare dentro o fuori, perché hanno già deciso di stare dentro.

Il percorso per il partito delle riforme sarà lungo perché occorre convincere con i fatti la nuova classe dirigente del nostro paese che ancora non si sente rappresentata da nessuno (non scordiamoci la grave crisi di tutto il mondo della rappresentanza), il ceto medio responsabile che decide di staccarsi dal computer, uscire allo scoperto e fare la sua parte (non il ceto “media” o il ceto “dal dito medio” che spopola sui social), ricostruire la fiducia nella politica dei giovani e di quei tanti cattolici che finalmente si stanno stancando di tutti i mercanti che “nel tempio”, a destra e sinistra, ognuno a suo modo e in nome di qualche misterioso principio etico, sono convinti che ci siano vite che valgono più di altre. E bisognerà che tanti cittadini si rendano anche conto che occorre un più di loro responsabilità e che alla politica non si può chiedere tutto, perché il rischio è che si illuda di essere tutto, mentre la politica seria è quella consapevole del suo limite.

Percorso, quindi, lungo e difficile quello del nuovo partito dei riformisti. Non sappiamo se sia quello giusto, ma giusto è l’obiettivo che nessuno ha il coraggio di perseguire: uscire dal tempo delle ideologie che sono la maschera più subdola della conservazione e che stanno spegnendo la creatività del nostro Bel Paese.

Questo deve essere il senso del voto al Terzo Polo.

Nessun commento:

Posta un commento